Editoriale

Quando le storie smettono di proteggerci ovvero la crisi narrativa e i femminicidi.

C’è una crisi che non fa rumore, ma che uccide. È una crisi di parole, di storie. Una crisi narrativa, come la chiama il filosofo Byung-Chul Han.
Questa crisi vive nei titoli dei giornali, nei post frettolosi sui social, nei commenti sotto le notizie:
“L’ha uccisa per gelosia”,
“Era un ragazzo educato”,
“Un raptus inspiegabile”. Tutto suona stanco, vuoto. E intanto, le donne continuano a morire. Nel 2025, in Italia, sono già 27 le donne uccise in contesti di femminicidio. Almeno 5 casi sono ancora in fase di accertamento. Molte erano giovanissime. L’ultimo nome è Martina Carbonaro, 14 anni. Il suo corpo è stato ritrovato il 28 maggio, ad Afragola.
Uccisa dall’ex, diciannovenne.
Una relazione tra adolescenti — finita —
e lui che “non accettava di essere lasciato”.
Ma Martina non è sola. Prima di lei, Giulia Cecchettin, 22 anni, uccisa nel novembre 2023.
Giulia Tramontano, incinta, assassinata dal compagno. E poi ancora, dall’Osservatorio di Non Una Di Meno, leggo i nomi delle donne assassinate nei soli mesi di Aprile e Maggio: Amina,Lucia,Tania,Chiara,Immacolata,Teresa,Samia,Lucia,Carmela,Claudia,Chiara,Daniela,Ermela.
Uccise nel nome di un patriarcato endemico, uccise solo perchè di genere femminile.
Ogni volta, le narrazioni sembrano copioni.
Lui era un tipo tranquillo. Lei, chissà. Lei, però, lei voleva lasciarlo.
Ci siamo abituati a raccontare la violenza senza chiamarla per nome.
Ecco cos’è la crisi narrativa di cui parla Han: viviamo in una società che ha perso il senso del racconto. Ci esibiamo. Postiamo. Ma non sappiamo più narrare perchè non apparteniamo ad una comunità narrativa che tenga le file del nostro “senso al mondo”. La narrazione richiede tempo, ascolto, profondità. E soprattutto: riconoscimento dell’altro. Quando non sappiamo più raccontare né ascoltare,
non riconosciamo più l’altro – meglio dire l’altra – come essere umano. E in questo vuoto — sociale, relazionale, culturale — si radica sempre di più la violenza.

Chi uccide, spesso, è qualcuno che non accetta la fine di una storia. Che non sa elaborare un abbandono. Che non ha parole per dire il dolore, la perdita. E allora agisce.

Il femminicidio, in questa lettura, è anche una conseguenza della crisi narrativa. Di una cultura che non insegna ad amare, né a lasciar andare. E mentre le parole mancano, le leggi cercano di colmare il vuoto. Ma non sempre nel modo giusto.
A marzo di quest’anno,  un disegno di legge ha proposto l’introduzione del reato autonomo di femminicidio nel codice penale, punito con l’ergastolo. Un’iniziativa che ha suscitato un acceso dibattito. Ottanta giuriste italiane, tra cui docenti di diritto penale, hanno firmato un appello per esprimere la loro contrarietà a questa proposta.
Secondo loro, si tratta di una “strumentalizzazione populistica” che rischia di essere più simbolica che efficace.
Più utile a mostrare l’impegno del legislatore che a offrire risposte concrete al problema della violenza di genere . Come rispondere, allora?
Con nuove parole. Con nuovi racconti. Che smettano di normalizzare il dominio, il controllo, la gelosia, l’inferiorità della donna.
Che smettano di giustificare la violenza maschile come un effetto dell’amore. Raccontare è resistere.
Raccontare è prendere posizione. Perché le storie possono ferire. Ma anche salvare. E oggi più che mai, abbiamo bisogno di storie che sappiano proteggere la vita.

Grazia D

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