Delle ultime elezioni americane tante cose mi hanno colpita ma la riflessione di base resta una: la conferma di una dinamica che sembra ripetersi ovunque e cioè che i più poveri scelgono di affidarsi ai più ricchi, sperando che chi ha tutto possa preoccuparsi di chi non ha nulla. E come un martello pneumatico del perenne cantiere di questa città, la domanda resta sempre quella “com’è possibile? Da dove nasce questa fiducia?”
Non è solo una questione politica, ma una questione umana, profonda, quasi intima. La ricchezza, nella sua forma più estrema, non si costruisce nel vuoto: è il risultato di sistemi che sfruttano, negano diritti e accumulano risorse a scapito di molti. E allora, se questa verità è evidente, perché 77,3 milioni di americani hanno votato Trump cadendo nella grande illusione collettiva?
La stra-ricchezza (non la ricchezza) non è semplicemente “avere molto”. È un eccesso, un accumulo smisurato di risorse in mano a pochissimi, reso possibile solo da un sistema che permette, anzi incoraggia, l’ingiustizia.
La narrativa dominante ci insegna che chi è straricco lo è perché “se lo merita”, perché ha lavorato duro, ha avuto talento, ha rischiato. Ma dobbiamo iniziare ad aprire bene gli occhi e le orecchie perchè questa è solo una parte della storia: l’altra parte mostra che dietro la fortuna smisurata c’è un sistema che ha favorito pochi e lasciato indietro molti. E questi pochi, non hanno giocato seguendo le regole.
Il sociologo Zygmunt Bauman ha dichiarato in una intervista del 2016 che “più deboli sono le spalle di ciascun singolo e più pesante è la responsabilità scaricata su di lui con fenomeni come la privatizzazione e la deregolamentazione”. Nella società moderna, c’è una tendenza a trasferire sugli individui il peso di problematiche che hanno radici strutturali e collettive. A reggere questa dinamica c’è il meccanismo insidioso della distorsione percettiva. Ai poveri viene detto che la loro condizione è colpa loro. Contemporaneamente, attraverso i media viene raccontato che i poveri sono “altri”. Non sono quelli che lavorano con stipendi di sopravvivenza; non sono quelli che “ o pago la bolletta o faccio la visita medica con lo specialista”. I poveri vengono mostrati nelle pubblicità per le donazioni, sono lontani da noi.
E così, invece di riconoscersi come una collettività con problemi comuni, i poveri si sentono soli, isolati, quasi colpevoli della loro condizione. Questa frammentazione li rende deboli e incapaci di organizzarsi, di opporsi a un sistema che non li rappresenta.
L’ economista e premio Nobel statunitense Joseph Stiglitz nel suo libro “Il prezzo della disuguaglianza” ha scritto che “L’aumento delle disuguaglianze economiche non è solo una questione morale, ma mina anche la democrazia.”
E lo spettacolo del cedimento democratico è una catastrofe che vediamo scorrere sui nostri monitor.
Eleggere uno stra-ricco come Trump è un tradimento silenzioso, inconsapevole, dei principi stessi su cui si fonda una società democratica.
Forse la domanda da cui ero partita — “Come possono i poveri credere nei ricchi?” — ha una risposta più semplice di quanto sembri. Non sono i poveri a credere nei ricchi, è il sistema costruito intorno a loro che li adusa alla narrazione distorta nella quale specchiano la speranza che qualcosa possa cambiare. Ma questa speranza, senza reale consapevolezza e organizzazione, rischia di trasformarsi in una trappola infernale.
Una trappola che mi ricorda le dinamiche del film “Parasite”, dove i sogni di riscatto di una famiglia povera si infrangono contro la violenza e l’ipocrisia di un sistema che concede a pochi il privilegio di vivere con dignità, lasciando gli altri a contendersi le briciole. Lo sgurado penetrante di Bong Joon-ho, ci mette davanti alla realtà (ignorata) della povertà che non è solo una condizione economica, ma una forma di segregazione sociale e psicologica che isola e divide.
Come nel film, anche nella realtà il cambiamento parte dal riconoscere che la povertà non è una colpa individuale, ma una responsabilità collettiva. Forse dobbiamo ritrovare la consapevolezza di una comunità che non si lascia ingannare dalle apparenze, ma si unisce per difendere i diritti e la dignità di ognuno.
Mala tempora currunt sed peiora parantur nella nuova Era Intergalattica di Trump e solo la vigilanza collettiva può allontanare l’annientazione.
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