L’intelligenza artificiale ha compiuto notevoli progressi, eccellendo in compiti che richiedono velocità, coerenza ed elaborazione di enormi set di dati – spesso superando le capacità umane in questi specifici domini. Tuttavia, quando approfondiamo le fondamenta stesse di come umani e IA raccolgono informazioni dal mondo, emerge una divergenza fondamentale: la distinzione tra input di dati analogici e digitali.
L’IA opera su principi digitali ed elabora le informazioni come unità discrete, bit di 0 e 1. Le sue decisioni si basano su algoritmi e modelli statistici meticolosamente applicati a questi dati digitali. Anche il nascente campo del calcolo quantistico, pur promettendo un salto rivoluzionario nella potenza di elaborazione, si confronta ancora con il processo decisionale basato su qubit – entità che possono esistere in una sovrapposizione sia di 0 che di 1, con stime di probabilità per ogni stato. Eppure, per quanto complessa, non si avvicina nemmeno agli articolati strati di rielaborazione dei nostri modi di acquisizione di dati dall’esterno.
In netto contrasto, infatti, gli esseri umani sperimentano il mondo attraverso una lente analogica – i nostri cinque sensi. Ad esempio, prendiamone uno e consideriamo la vista (processi simili valgono per gli altri quattro sensi). Percepiamo il mondo attraverso i nostri occhi, ma il viaggio dall’ambiente esterno alla nostra comprensione interna è tutt’altro che un trasferimento digitale diretto.
La luce, sotto forma di fotoni con lunghezze d’onda tra 400 e 700 nanometri, colpisce i recettori della nostra retina. Ogni altro spettro di energia elettromagnetica al di sopra o sotto di questa ridotta fascia resta non rilevabile dal nostro sistema visivo. Questa gamma molto limitata rilevata dai nostri recettori viene quindi trasformata in impulsi elettrici. Questi impulsi intraprendono un complesso viaggio lungo il nervo ottico e il sistema neurologico, navigando in una rete di intricate strutture prima di raggiungere finalmente il lobo occipitale del nostro cervello. A questo punto, chi sa cosa c’è lì fuori?
Questo processo non è una semplice trasmissione di dati grezzi. Ad ogni stadio, le informazioni vengono filtrate, alterate e/o aumentate. Condizioni biochimiche, intricate connessioni neurali e giunzioni sinaptiche contribuiscono a una trasformazione altamente complessa dell’input sensoriale iniziale. Quando questi impulsi elettrici raggiungono la corteccia occipitale, i “dati” sono già significativamente modificati rispetto ai fotoni che inizialmente sono entrati nei nostri occhi.
Inoltre, il lobo occipitale non riceve semplicemente gli impulsi che inizialmente colpiscono la superficie bidimensionale dei ricettori sulla nostra retina bensì costruisce attivamente una rappresentazione tridimensionale del mondo esterno basandosi su questi segnali elettrici trasformati. Solo allora, per la prima volta, “vediamo”! Ma l’elaborazione non finisce qui. Ciò che percepiamo viene ulteriormente plasmato dal linguaggio mentre categorizziamo e nominiamo gli oggetti, e successivamente ulteriormente trasformato attraverso l’esperienza soggettiva. Quando i “dati” raggiungono la nostra mente cosciente, sono a diversi livelli di distanza dallo stimolo esterno originale.
Questa fondamentale differenza nell’input di dati – la percezione analogica continua e ricca di sfumature degli esseri umani rispetto all’elaborazione digitale discreta e quantificabile dell’IA – evidenzia una distinzione chiave nel modo in cui ci impegniamo e comprendiamo il mondo. Mentre l’IA eccelle nell’analisi di schemi all’interno di set di dati digitali strutturati, la comprensione umana è radicata in un’esperienza analogica ricca, complessa e intrinseca
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