Editoriale

La tecnologia sta trasformando l’esperienza umana?

Spostare l’attenzione dalla raccolta dei dati e dei target allo studio delle circostanze e “delle cose da fare”. La tecnologia è un processo di assemblaggio che parte dalle liste “cose da fare” e diventa una trasformazione che impatta.

In una recente NL della McKinsey, ho letto di un sondaggio somministrato a dirigenti globali. E sono partita per una riflessione che Battiato chiamava associativa. In questo sondaggio, si chiedeva ai manager che importanza avesse l’innovazione tecnologica nella propria azienda. Beh, l’ 84% ha riferito che l’innovazione è estremamente importante nelle proprie strategie di crescita. Il dato che mi ha però stupito, facendo partire la riflessione, è il dato successivo: tra di loro, il 94% si dichiara insoddisfatto dei risultati dell’ innovazione nelle proprie organizzazioni.

E parlando di manager di multinazionali, la cosa è preoccupante, mi sono detta, visto che programmi internazionali, europei, piani di sviluppo intergalattici hanno proprio “innovazione tecnologica e trasformazione digitale” come leitmotiv di ogni obiettivo.

Poi ho pensato, in effetti, se mi soffermo e osservo le persone della mia cerchia — variegate per età, formazione, interessi — , e valuto l’impatto tecnologico sulla loro esperienza umana, vedo pochi cambiamenti significati. Cioè quello che si chiama la lista delle “cose da fare” aderente al proprio ruolo — di mamma, imprenditrice, addetta alle vendite, dirigente, ministra e via dicendo — è rimasta invariata.

Ma quindi i big data? L’approccio data driven, gli esperti di dati arrivati in azienda per accelerare e migliorare le vendite ad esempio, non stanno innovando? Si, ma le risorse mobilitate non valgono i risultati, che spesso sono “casuali”, non frutto di un processo scientifico.
Insomma per questi global manager, la posta non vale la candela. E anche per le persone che mi stanno intorno, profilate a più non posso, la tecnologia non sta modificando l’esperienza umana, le “liste delle cose da fare”.
Quindi, si, la grande maggioranza delle innovazioni è ben al di sotto delle nostre aspettative.

Ma dunque l’ ossessione per la correlazione e la conoscenza sempre più approfondita dei clienti ci sta portando — e sta portando le aziende- nella direzione sbagliata? Sembra di si. Ciò di cui abbiamo veramente bisogno, come persone, è un piccolo miglioramento, un dignitoso progresso nello svolgimento di “qualcosa che abbiamo da fare” in una determinata circostanza. Questa è quella che Clayton M. Christensen ha chiamato Il Dilemma dell’ Innovatore nell’omonimo libro.
Fino a quando i programmi di trasformazione digitale vanno nella direzione di un accumulo di dati — sebbene strutturati e abbondanti— restano incapaci di evidenziare la direzione del bisogno da soddisfare ossia la lista delle cose, non cambierà l’esperienza umana e resterà, nei casi migliori, un esercizio di stile. Nei peggiori, il fallimento.

Ma quindi che si fa con la Trasformazione Tecnologia, con l’Innovazione Digitale?

Ho letto questa cosa in un trafiletto nella Harvard Business Review: nel 2015 la professoressa Hyejin Youn, esperta di sistemi complessi alla Northwestern University, ha esaminato tutti i brevetti depositati negli Stati Uniti tra il 1790 e il 2010. Ha scoperto che molti dei brevetti fino al 1870 rappresentavano nuove tecnologie o scoperte autentiche. Da quel momento in poi, tuttavia, l’innovazione è diventata una combinazione di tecnologie esistenti, assemblate in modi nuovi.
Anche l’iphone se ci pensate è frutto di assemblaggio di tecnologie esistenti all’epoca.

Le invenzioni procedono in modalità di “assemblaggio modulare”: una specie di mobile ikea i cui pezzi sono già noti a tutti ma assemblati danno vita a qualcosa di nuovo. Qualcosa di nuovo ma di familiare e per questo non spaventa e aderisce alla vita e all’esperienza umana.

In questo video, Homer Simpson spiega il perchè

“La gente ha paura delle cose nuove. Avresti dovuto prendere un prodotto esistente e metterci un orologio”.
Dunque le startups tecnologiche che decollano (viste a centinaia durante il Web Summit ad esempio) uniscono tanta familiarità con un po’ di novità.

Le innovazioni che hanno successo — capaci di modificare anche un pezzettino piccolo dell’esperienza umana— sono quelle che mixano il “già noto” con qualcosa di nuovo.
E tanto marketing, certamente.

p.s. Homer aveva ragione sul fatto che le persone rifuggono le novità dirompenti come “il traduttore per neonati” , ma spesso capita che apprezzino a distanza di anni. Fortunatamente per Herb, il suo traduttore lo ha reso ricco (e ha condiviso i proventi con Homer!).

Grazia D

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