E parlando di manager di multinazionali, la cosa è preoccupante, mi sono detta, visto che programmi internazionali, europei, piani di sviluppo intergalattici hanno proprio “innovazione tecnologica e trasformazione digitale” come leitmotiv di ogni obiettivo.
Poi ho pensato, in effetti, se mi soffermo e osservo le persone della mia cerchia — variegate per età, formazione, interessi — , e valuto l’impatto tecnologico sulla loro esperienza umana, vedo pochi cambiamenti significati. Cioè quello che si chiama la lista delle “cose da fare” aderente al proprio ruolo — di mamma, imprenditrice, addetta alle vendite, dirigente, ministra e via dicendo — è rimasta invariata.
Ma quindi i big data? L’approccio data driven, gli esperti di dati arrivati in azienda per accelerare e migliorare le vendite ad esempio, non stanno innovando? Si, ma le risorse mobilitate non valgono i risultati, che spesso sono “casuali”, non frutto di un processo scientifico.
Insomma per questi global manager, la posta non vale la candela. E anche per le persone che mi stanno intorno, profilate a più non posso, la tecnologia non sta modificando l’esperienza umana, le “liste delle cose da fare”.
Quindi, si, la grande maggioranza delle innovazioni è ben al di sotto delle nostre aspettative.
Ma dunque l’ ossessione per la correlazione e la conoscenza sempre più approfondita dei clienti ci sta portando — e sta portando le aziende- nella direzione sbagliata? Sembra di si. Ciò di cui abbiamo veramente bisogno, come persone, è un piccolo miglioramento, un dignitoso progresso nello svolgimento di “qualcosa che abbiamo da fare” in una determinata circostanza. Questa è quella che Clayton M. Christensen ha chiamato Il Dilemma dell’ Innovatore nell’omonimo libro.
Fino a quando i programmi di trasformazione digitale vanno nella direzione di un accumulo di dati — sebbene strutturati e abbondanti— restano incapaci di evidenziare la direzione del bisogno da soddisfare ossia la lista delle cose, non cambierà l’esperienza umana e resterà, nei casi migliori, un esercizio di stile. Nei peggiori, il fallimento.