Tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero.
Pensare liberamente e poi dare voce al pensiero. Un pensiero che passa anche attraverso un vestito indossato durante la prima serata del 73esimo Festival di Sanremo. Indossato da una indossatrice, e imprenditrice di successo, che usa magistralmente proprio quel linguaggio come narrazione del suo mondo.
E quel pensiero, derivato o autentico che sia, per lei, è un pensiero sui tabù.
“Come si riconosce un tabù?” mi chiede la nana minore ancora sveglia.
Se ti viene di sgranare gli occhi o di storcere le labbra in una smorfietta di disappunto allora è proprio lì. Il tabù. Annidato nelle nostre fibre (non in quelle preziose di Dior che fasciano i corpi), porose di reticenza e vergogne.
Nella cultura corrente, un corpo di donna è un oggetto erotico ed è anche un santuario di sensi di colpi. Un corto circuito che partorisce mostri subdoli dai nomi sussurrati shhhhh, malattie della mente che mortificano l’anima.. bulimie, anoressie, depressioni, burnout; ma anche mostri violenti incorniciati dalla cronaca nera, violenze psicologiche, fisiche, mentali, economiche, femminicidi, revenge porn.
E quindi quando un corpo come quello della Ferragni irrompe sul palco imbalsamato, il corto circuito è inevitabile.
Quando appare nel suo nude look sul palco dell’ Ariston, mi arriva tanta roba: il seno e gli addominali ricamati sull’abito di Maria Grazia Chiuri, mostrano le sinuosità di un corpo di cui, prima o poi, tutte noi, per un attimo o per lunghe stagioni, finiamo per vergognarci.
A modo suo, la Ferragni ci dice che si sente parte della sorellanza. Con il suo strumento di narrazione è una “che fa quello che può”. Può molto e speriamo che continui a filantropeggiare, per sentimento o per marketing, poco ci importa, ma continui a farlo perché può muovere più lei con un vestito-messaggio che una libreria femminista, verso la consapevolezza su disuguaglianza di genere o body shaming ad esempio o in generale sulla dittatura estetica.
Nel chat chat successivo, a modo nostro, abbiamo dimostrato di non aver capito nulla di tutto questo. Non ci ricordavamo nemmeno degli applausi all’articolo 21 interpretato, sullo stesso palco, due ore prima, da Roberto Benigni, che ha emozionato tutti. Noi, a modo nostro, da un divano che ormai ha una protesi con tastiera da leone, abbiamo messo in scena la pratica della retorica, annacquata nella logica perversa degli haters.
Che perdita di senso e di comunità, quante occasioni di sorellanza buttiamo al cesso.
A me, questo trompe d’oeil ha dato più emozione delle sue parole. Una sacra sindone femminile da esporre per rivendicare il proprio “diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero” e il proprio corpo senza giudizio e senza vergogna.
Dovremmo “pensarci libere” e rompere il giogo delle vittime che eleggono i propri carnefici.
A questo link i magnifici outfit che riporto per Dirtitto di Cronaca.
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