Professionalmente parlando sono una nativa digitale. Dopo la laurea, a 24 anni ho iniziato a lavorare proprio nel digitale e da allora, ho un personal computer tutto mio. In certi anni ne ho avuti due contemporaneamente. Ma il punto è un altro.
Prima di allora, ero stata una nomade delle sale informatiche, dei punti informatici nelle biblioteche, degli internet point (ve li ricordate, no?).
E ancora prima, ero stata un’adolescente diffidente di tutto quello che era tecnologia, che un pò si spaventava ma che tanto si meravigliava del calcolo veloce, di monitor verdi e di suoni metallici che richiamavano universi paralleli.
C’erano giorni nei quali accendere il computer nell’aula informatica era un momento speciale: il futuro sembrava a portata di mano e ogni interazione con il computer conteneva un senso di scoperta. Nei primi grandi magazzini di tecnologia, i computer e tutti gli strumenti ad esso connettibili, erano oggetti da ammirare, simboli di possibilità inesplorate.
Ad un certo punto poi il computer è diventato uno strumento imprescindibile, indispensabile, nella mia vita quotidiana (come in quella di tanti), e parallelamente, il senso di meraviglia è andato scemando. La tecnologia si è trasformata (portando trasformazione in me) e ad un certo punto da portatrice di stupore si è tramutata in strumento di lavoro freddo e funzionale, un “attrezzo” per il quale dovevo certificare le competenze (vi ricordate la sezione “competenze informatiche” nei curricula??). Anche nelle attività più creative, come la scrittura di un articolo o l’editing di una foto, il computer sembrava privo di anima, un semplice mezzo di espressione e non un compagno di avventura formidabile.
Ed eccoci al punto. Sembra quasi che con l’avvento dell’intelligenza artificiale generativa, qualcosa di “meraviglioso” sta tornando. C’è di nuovo un’aria di sorpresa nell’aria, una sensazione che non provavo dalla prima accensione di un desktop nella sala informatica della mia università a Salerno. L’intelligenza artificiale generativa mi sta riportando quel fascino che sembrava perduto: l’interazione è naturale, intuitiva, quasi magica, e lo schermo non è più solo uno spazio vuoto da riempire con attività ordinarie. Mi basta aprire l’app sul mio iphone e intavolare una conversazione semplice per evocare risposte intelligenti, riflessioni persino con un accenno di personalità.
Non è solo una questione di efficienza e produttività, ma anche di stupore ancestrale.
Quando interagiamo con un modello di AI (perplexity, gemini, chatgpt, claude etc ) non ci limitiamo più a utilizzare meramente lo strumento per finire un lavoro o fare la spese online ma possiamo sentirci ispirati, come se avessimo un interlocutore che ci capisce, che dialoga con noi e che, in qualche modo, ci incuriosisce condividendo una piccola quota di umanità.
Quindi in tutto questo hype, quello che più mi piace dell’AI è la promessa sottile che sottende a tutte le interazioni: mi permette di dare alla tecnologia la connotazione di risorsa che, con il giusto approccio, riesce a restituire il contatto emotivo e la connessione che avevamo perso.
Si lo so, è un pò troppo romantico ma questa sfumatura me ne fa apprezzare le potenzialità oltre la sterile esecuzione di compiti che rende drammaticamente grigio il lavoro di migliaia di persone.
Chissà, magari proprio questa volta le macchine riusciranno a realizzare quel sogno di umanità che Steve Wozniak, Trip Hawkins e molti altri pionieri avevano intravisto all’alba dell’era informatica, pensando al “computer amico”.
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