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Il potere nascosto del linguaggio umano

Nell’era dell’intelligenza artificiale, dell’apprendimento automatico e dei modelli linguistici avanzati, spesso ci concentriamo sul linguaggio come strumento di comunicazione esterna. Gli algoritmi di intelligenza artificiale imparano identificando connessioni e schemi all’interno di vasti set di dati di linguaggio simbolico (figure, immagini, numeri e parole). Ma per noi umani, il vero significato del linguaggio va ben oltre la sua funzione comunicativa.

Di certo la sua importanza non risiede  nell’essere un mezzo di comunicazione. Basta osservare uno stormo di uccelli in volo; la loro coordinazione, comunicazione e scambio di informazioni sono spesso molto più efficienti di quelli che avvengono in una riunione di condominio!

Questo evidenzia un punto cruciale: lo scopo primario del linguaggio umano non è, di fatto, la comunicazione.

Allora, cosa rende il linguaggio così straordinariamente importante per noi, distinguendoci da tutti gli altri animali del pianeta terra? Storicamente, la linguistica era considerata la chiave per comprendere il funzionamento della mente umana e il processo stesso del pensiero. Questo perché il potere fondamentale del linguaggio risiede nelle sue operazioni e nella sua elaborazione interna. Infatti, si stima che un sorprendente 99,9% del nostro uso linguistico sia diretto verso l’interno, alimentando il nostro dialogo interiore, i nostri pensieri, la nostra capacità di astrazione, generalizzazione e il motore stesso dell’immaginazione – una facoltà che Albert Einstein considerava molto più importante della semplice conoscenza.

È interessante notare che la rivoluzione nella linguistica moderna negli anni ’70 vide l’integrazione di modelli matematici, come la Macchina di Turing, che contribuirono significativamente alla rivoluzionaria Grammatica Trasformazionale di Noam Chomsky, dimostrando la natura intrinsecamente interdisciplinare della comprensione del linguaggio.

Le implicazioni di questa dominanza interna del linguaggio sono profonde. Più del 99% della nostra attività linguistica – alcuni sostengono il 99,9% – è utilizzata internamente. Serve a creare pensieri che, a loro volta, innescano il rilascio di sostanze neurochimiche (dopamina, cortisolo, adrenalina, …) che sperimentiamo come emozioni (gioia, paura, rabbia, …) che poi si riversano nei nostri comportamenti, plasmando il modo in cui interagiamo con il mondo.

Se riflettiamo sulle nostre interazioni con modelli linguistici di intelligenza artificiale come i chatbot, ci sarà capitato di notare di aver modificato sottilmente la formulazione delle domande, semplificando il tuo linguaggio, per essere “meglio compreso” dal bot e adattando le nostre parole al suo funzionamento per ricevere risposte più pertinenti. Questo adattamento apparentemente innocuo solleva una domanda critica: è accettabile che si adatti la nostra concezione di un magazzino sulle esigenze di funzionamenti automatici per ottimizzare l’efficienza robotica, ma cosa succede quando iniziamo ad adattare e trasformare il nostro stesso linguaggio per allinearlo al modo in cui le macchine lo elaborano? Quali sono le potenziali conseguenze per il nostro apparato cognitivo, emotivo e comportamentale se iniziamo a “pensare” nel linguaggio dei prompt?

L’uso interno preponderante del linguaggio sottolinea il suo ruolo fondamentale nel plasmare la nostra stessa esperienza della realtà, i nostri pensieri, le nostre emozioni e, in definitiva, le nostre azioni. Man mano che interagiamo sempre più con sistemi di intelligenza artificiale che si basano su un linguaggio simbolico esternalizzato, diventa cruciale ricordare il potere profondo e in gran parte interno del linguaggio umano e considerare le potenziali ramificazioni dello spostamento inconscio del nostro panorama linguistico per adattarsi meglio alla macchina.

Elena Meneghetti

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