Disinnescare i conflitti con Ristretti Orizzonti nel Carcere di Padova

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Grazia D

Ci sono luoghi che non ti aspetti nemmeno di visitare, ma che finiscono per lasciarti addosso qualcosa di profondo e difficile da dimenticare. Uno di questi, per me, è stato il carcere di Padova, la storica Casa di Reclusione “Due Palazzi”. Lo scorso venerdì 23 maggio sono stata lì in occasione della Giornata Nazionale di Studi promossa da Ristretti Orizzonti, e senza retorica, dico che ne sono uscita diversa. Non immaginavo quante storie, voci e riflessioni avrebbero colpito e affondato dritto nello stomaco. Provo a restituirle qui perché credo nel loro potere.

Il cuore di Ristretti Orizzonti
A organizzare il tutto è l’Associazione Granello di Senape, editrice della rivista “Ristretti Orizzonti”, l’organizzazione che lavora ogni giorno per supportare le persone detenute e per promuovere una nuova consapevolezza sul senso della pena. La redazione di “Ristretti Orizzonti” è, a tutti gli effetti, il cuore pulsante dell’associazione: un gruppo di circa trenta persone detenute (che fino a poco tempo fa comprendeva anche detenuti dell’Alta Sicurezza), affiancate da volontari e dalla direttrice, Ornella Favero che guida la redazione nel racconto dell’attualità,  programmando attività di sensibilizzazione con grande attenzione al dialogo con le scuole e con le vittime di reato.
Il gruppo di Ristretti Orizzonti è il fulcro dell’unico cambiamento possibile nel dialogo dentro-fuori che realizza in una varietà di attività: oltre alla redazione, gestiscono un notiziario quotidiano, progetti educativi nelle scuole, uno sportello di orientamento giuridico, attività legate alla Messa alla Prova, la gestione delle biblioteche carcerarie, progetti formativi e lavorativi, laboratori di scrittura, progetti narrativi con migranti, percorsi di competenze di cittadinanza e attività per le fasce più fragili della popolazione detenuta. Una ricchezza che non si vede ma che ci rende più civili.

La questione dell’Alta Sicurezza
Uno dei temi più delicati degli ultimi mesi, e che è stato accennato anche durante la giornata, riguarda l’Alta Sicurezza e l’interruzione dei percorsi per i detenuti in questo circuito. Fino a poco tempo fa, anche alcuni di loro facevano parte della redazione ma oggi non è più così, e il dibattito è tutt’altro che chiuso. È un aspetto cruciale nel discorso sul carcere come prosecuzione del conflitto, e sulle ragioni dei detenuti dell’Alta Sicurezza.

Il convegno 2025: al centro il tema del conflitto
 Il titolo – “Disinnescare… Attrezziamoci per disinnescare i conflitti, non per fomentarli” – è già un manifesto. Un invito a costruire ponti e trovare spazi di condivisione, in un’epoca in cui il rischio di polarizzazione è dietro ogni angolo. L’evento della redazione di Ristretti Orizzonti, curato da Ornella Favero e Silvia Giralucci, ha visto la partecipazione di 500 persone tra cui un nutrito gruppo di studenti.

Gli interventi e i relatori
La giornata è iniziata con i saluti istituzionali: la direttrice della Casa di Reclusione, Maria Gabriella Lusi, e l’assessora del Comune di Padova, Francesca Benciolini. La regia degli interventi è stata affidata ad Adolfo Ceretti, professore di Criminologia, mediatore e formatore esperto in giustizia riparativa.

Mi sono trovata ad ascoltare una straordinaria varietà di relatori:

  • Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti

  • Salvatore Fani, redattore detenuto

  • Marino Occhipinti, redattore detenuto

  • Gino Cecchettin, impegnato nella lotta contro la violenza di genere

  • Amin Er Raouy, redattore detenuto

  • Fatmir Muhaj, redattore detenuto

  • Jorge Martinez, redattore detenuto

  • Alfio Maggiolini, psicologo e psicoterapeuta

  • Renat Hadzovic, redattore detenuto

  • Jody Garbin, redattore detenuto

  • Carlo Stasolla, presidente di Associazione 21 luglio, esperto di inclusione delle comunità Rom

  • Toni Ndoci, redattore detenuto

  • Anilda Ibrahimi, scrittrice

  • Mattia Griggio, redattore detenuto

  • Andrea Callegari, redattore detenuto

  • Francesco Striano, ricercatore in filosofia morale e scrittore

  • Benedetta Tobagi, scrittrice, storica e autrice radiofonica

  • Rossella Favero, formatrice  di Granello di Senape

  • Elton Kalica, redattore detenuto

  • Shkelquim Daja, redattore detenuto

  • Gian Domenico Caiazza, avvocato penalista

  • Federica Brunelli, avvocata e mediatrice esperta in giustizia riparativa

  • Carlo Riccardi, criminologo clinico e mediatore

  • Sonia Fusco, madre di Fernanda

  • Yehia Elgaml, padre di Ramy

  • Angelica Armenio, educatrice e figlia di detenuto

Le storie che colpiscono forte
Il momento più toccante, personalmente, è stato l’ascolto della testimonianza di Sonia Fusco, madre di Fernanda, una ragazza uccisa a 17 anni in un incidente stradale. Sonia parla di “violenza stradale” sovvertendo il piano scivoloso, buio e glaciale, dell’ “incidente stradale”  parlando del primo incontro in tribunale con il ragazzo responsabile della morte della figlia. Nel suo racconto di dolore annebbiante, hanno trovato spazio parole di una forza e di una fiducia disarmante: “mettere l’amore al posto del dolore è stata l’unica scelta. Il perdono per me è stato come l’odore dei fiori calpestati.” Il suo intervento ha inserito un tassello prezioso nel dibattito su come sia possibile, e necessario, disinnescare il rancore dei familiari delle vittime.

Altrettanto profonda la voce di Angelica Armenio, una giovanissima studentessa che ha portato la prospettiva delle vittime “senza approvazione sociale”, i figli delle persone detenute. Ha raccontato la realtà del doppio stigma di bambini e ragazzi che vivono ogni giorno, tra separazione e colpa riflessa. Ho avuto il piacere di conoscere personalmente Angelica durante la pausa pranzo, dove mi ha raccontato della vergogna, della rabbia ma anche dell’amore sconfinato che l’ha portata a prendersi cura del padre nella sua malattia. Una conversazione che spero di poter riprendere presto.

In una intervista registrata Yehia Elgaml, padre di Ramy, il ragazzo morto durante un inseguimento della polizia a Milano, ha testimoniato con parole semplici e forti, il senso profondo della giustizia riparativa, interrogandosi e interrogandoci sul significato delle parole fuori tempo e fuori contesto: la parola “bene” a commento della caduta mortale, è lancinante e va dritta al cuore di questa giornata.

Il dialogo sulla giustizia riparativa
Non posso non raccontare il momento, intenso e lacrimoso, del talk sulla giustizia riparativa: mediatori, criminologi e familiari delle vittime hanno introdotto il tema dell’incontro. Ho ascoltato, nuovamente, con ammirazione le parole di Federica Brunelli che insieme a Carlo Riccardi, si occupa proprio di programmi di giustizia riparativa. Insieme a Sonia Fusco e Yehia Elgaml, papà di Ramy (morto in circostanze tragiche a Milano durante un inseguimento con la polizia), hanno discusso di come affrontare i reati che suscitano odio sociale e di come disinnescare il rancore dei familiari delle vittime. La giustizia riparativa, lo sto imparando, non può cancellare l’irreparabile, ma ha la bellezza di riportare le persone – vittime, responsabili, comunità – a guardarsi in faccia, a riconoscersi come esseri umani, a provare a rompere gli schemi della disumanizzazione. Un passaggio cruciale per qualsiasi futuro immaginabile.

La rivoluzione gentile
Benedetta Tobagi, causa sciopero generale, è riuscita a partecipare solo collegandosi in video da Milano portando il suo sguardo di storica e scrittrice sul tema del femminismo come “rivoluzione gentile e non violenta”. Il suo intervento, in dialogo con Ornella Favero, ha dato diversi spunti di riflessione sull’importanza di tenere insieme la liberazione personale e quella collettiva, lavorando non solo per di sé, ma soprattutto per cambiare radicalmente una società che ancora oggi deve fare i conti con disuguaglianze, femminicidi, discriminazioni, attacchi ai diritti acquisiti. In un tempo di angoscia e polarizzazione, la necessità di costruire ponti è davvero urgente – anche nelle battaglie femministe. Consigliatissimi i suoi libri, a partire da “La Resistenza delle donne”.

Le parole che fanno la differenza
Una giornata lunga e faticosa, fatta di treni cancellati e di viaggi su autostrade  molto trafficate ma che rifarei per l’immensa varietà di conoscenze ed emozioni. Sono uscita dalla casa circondariale Due Palazzi sotto l’occhio vigile degli agenti con la consapevolezza di quanto sia potente il linguaggio con cui raccontiamo il carcere, la giustizia e i conflitti sociali. Etichette come “fascicoli viventi” o la stigmatizzazione di comunità intere – Rom, Albanesi, ecc. – non fanno altro che alimentare la disumanizzazione. Anche il modo in cui i media trattano le persone imputate, spesso trasformandole in “mostri” o “nemici pubblici” ancor prima di una sentenza definitiva, dimostra quanto sia necessaria una comunicazione più responsabile e informata. Le aziende e le istituzioni che in questo paese hanno nel proprio statuo le parole “dignità” “giustizia” “rispetto”, dovrebbero promuovere eventi e momenti di dialogo che aiutino a usare le parole giuste, perché il linguaggio può essere uno strumento di conflitto… oppure di riparazione.
Il convegno ai Due Palazzi ha rappresentato proprio questo: un esercizio collettivo di ascolto, di riflessione e di apertura. Prima di risalire in auto con giovani compagne e samaritane Martina e Anna Claudia della Caritas Ambrosiana, guardo il verde intorno che circonda il carcere e sento forte che il senso di questa giornata per tutti, dentro e fuori dal carcere, è quello di superare il limite e ricordarci che ogni conflitto può essere disinnescato. Non è facile, non è rapido, ma è l’unica strada per salvaguardare l’umanità che per non estinguersi ha bisogno, ora più che mai,  di essere più giusta, meno ostile, più capace di guardare oltre lo scontro.

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