Una cara amica mi ha detto: “non voglio che le multinazionali tecnologiche americane vendano i miei dati. E a dirla tutta ne ho abbastanza anche della mia azienda che controlla ogni singola azione con la scusa di migliorare le performance”. La sera dopo mi ha scritto: “Ohi, te la ricordi Marinella D. dell’università? Si è sposata con P., è sempre in splendida forma. Caxxo che belli.” Ed io le ho chiesto se dopo 25 anni la sentisse ancora. Lei mi ha risposto: “ Ma va, ho visto le foto su Instagram”.
E dopo aver ricordato i bei tempi andati di esami e libri fotocopiati, ho riflettuto sul valore delle contraddizioni e su come le tirannie usino il silenziatore quando sparano i colpi che anestetizzano.
La conclusione a cui sono approdata, è semplice la dico subito: se non vuoi essere costantemente osservata, non puoi non essere critica nei confronti dei social media. Ma non ci si arriva subito, affatto.
Ultimamente scorrendo le bacheche della mia bolla algoritmica, mi imbatto in meme e post su come la sorveglianza coercitiva di Orwell in “1984” sia attuale grazie soprattutto all’accentramento tecnologico nelle mani di pochi.
Ma grazie alla conversazione con la cara amica di cui sopra, ho spinto il pensiero oltre la siepe, e ho visto meglio: gli schermi dei nostri dispositivi non esistono principalmente per sorvegliarci, ma per darci la possibilità di osservare gli altri.
La differenza è sostanziale. A questo punto, non si tratta di controllo coercitivo orwelliano ma sono piuttosto i social media a trasformarci in controllori del comportamento altrui.
Dunque, il pericolo dei social media non è tanto l’essere osservati, quanto nel fatto che diventiamo noi stessi osservatori: ci trasformiamo in un pubblico giudicante, collettori di informazioni gli uni sugli altri, in oppressori digitali: ci formiamo un’opinione limitata su qualcuno basandoci su ciò che pubblica e, se il suo comportamento non corrisponde a questa immagine predefinita, lo “puniamo” con commenti negativi o smettendo di seguirlo.
Ci ritroviamo in queste piazze virtuali per osservarci a vicenda, e le strategie sull’engagement di tutti i marketers e delle piattaforme, sfruttano la nostra FOMO e la nostra solitudine, peggiorandole. Non incontriamo amici, ma followers e quindi iniziamo a fare scelte non-autentiche per necessità degli algoritmi che così ci vogliono.
A differenza della costrizione orwelliana di “1984”, i social media operano attraverso la seduzione: è terribile realizzarlo ma si, sfruttano la paura di essere esclusi e l’opportunità di raccogliere informazioni sugli altri, di nascosto.
Dunque amica mia, la risposta per sfuggire a tutto questo controllo è uscire dalla gabbia dorata dei social media, ristrutturare la parte della nostra identità indipendente dallo sguardo degli altri, rinunciare al proprio “avatar” e ai filtri, in un certo senso, ricominciare. Come quando eravamo fuorisede e ci davamo appuntamento nella piazza “fisica” dell’ateneo, al bar giallo di Economia e Commercio.
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